Appunti d'inverno. Qualche libro letto quest'anno. Prima puntata: Bravi, Dolci, Iotti, Loy, Mammi, Sperduti

07.11.2024 22:18
Tra i libri che ho letto quest’anno, di solito con ritardo, ne segnalo alcuni di autori e autrici viventi, pubblicati da case editrici indipendenti. Non che ce l’abbia con i morti, anzi, leggo più gli autori del passato che quelli dei nostri giorni. Forse per questo mi sento un po’ in colpa con il presente e allora cerco di redimermi alla meglio. Non si tratta in alcun modo di una classifica, né del tentativo di mettere in luce una qualche linea di tendenza letteraria. È solo un diario (parziale, molto parziale) di lettura. Cito gli autori in ordine alfabetico. Molti altri titoli sono ancora ammucchiati nella pila delle nuove accessioni domestiche. Ci saranno altre puntate.
 
Adrian Bravi, Verde Eldorado (Nutrimenti 2022). Proprio quest’anno che Bravi era nella dozzina del Premio Strega con Adelaida, libro con cui poi ha vinto il Premio Comisso, mi sono ritrovato a leggere il suo libro precedente, Verde Eldorado, appunto. Il tema è quello classico, sempre affascinante, del viaggio oceanico di esplorazione, nella fattispecie il viaggio che Sebastiano Caboto effettuò nel 1526 puntando alle isole Molucche e che invece deragliò, trasformandosi in una risalita del Rio de la Plata alla ricerca di una fantomatica terra dell’oro. Il punto di vista, inusuale, è quello di Ugolino, giovane veneziano spedito dal padre verso l’ignoto, costretto a imbarcarsi per trovare il suo posto nel mondo, lui che non pare versato per la mercatura, incline com’è allo studio e alla filosofia, e segnato irrimediabilmente nel corpo da un incendio a cui è sopravvissuto ma che gli ha devastato il viso. Il viaggio di Caboto è storico, documentato, Ugolino è invece una felice invenzione romanzesca. Imbarcato con il compito di tenere un diario di bordo, Ugolino - la testa sempre infilata in un cappuccio - è un viaggiatore controvoglia, sperduto, fragile, che pare destinato a soccombere e invece sarà capace di rinascere. Una volta sbarcati, i suoi compagni saranno squartati e divorati dai cannibali, solo lui si salverà, proprio in virtù del suo volto deturpato, su cui gli indigeni leggono i segni degli spiriti del fuoco. Accolto e accudito quasi come una creatura soprannaturale, troverà una nuova casa laggiù e conoscerà l’amore di una ragazza che lui ribattezza Giorgina: un amore adolescenziale e selvatico come quello di Adso del Nome delle Rosa, tra due giovani che non parlano la stessa lingua e si affidano all’istinto dei desideri. Ugolino resterà, in cuor suo, un occidentale e continuerà a riflettere sulle pagine del monaco medievale Scoto Eriugena, il suo filosofo preferito, ma non vorrà tornare a Venezia, nemmeno quando gli si presenta l’opportunità di farlo. Preferisce restare laggiù tra i Negas-dé, come lui chiama gli indigeni: bellissima trovata linguistica per indicare, in pseudo veneziano, una tribù di senza-dio, che però vive in armonia col creato, in un eterno presente, senza aspettative, senza impulsi di trasformazione, a differenza degli occidentali "evoluti" per i quali è inevitabile pensare al futuro, a fare qualcosa per il domani, avvelenandosi spesso il presente.
 
Paola Silvia Dolci, Abstine sustine (pièdimosca edizioni 2023). Quasi in apertura, l’autrice annuncia "un libro di ipotesi di racconto", fatto con gli indici dei cento libri che potrebbe scrivere e invece non scrive. È così che va visto questo testo o è un modo per sviare il lettore? Si tratta comunque di un diario, anche se non ci sono i giorni ma solo i mesi, un giornale intimo scritto nell'imminenza della morte del padre e nei mesi successivi. Un libro dal forte impatto emotivo, un libro di dolore, ma sobrio, parco, fatto di frasi brevi e pochi aggettivi, totalmente privo di retorica. Con questa eleganza si può scrivere su qualsiasi cosa. Essendo un diario, ed essendo molto sintetico, fuori dalle frasi resta molto non detto. Ci sono annotazioni che alludono sicuramente a qualcosa, ma non è chiaro cosa, restano curiosamente enigmatiche. Per esempio: "Latte e miele, e un elefantino nella scodella"; oppure: "Mamma guarda, e la natura pensa al mio posto". Un interlocutore che ritorna spesso nel diario è il dottore cioè lo psicanalista. Però a un certo punto l’autrice dice: "Sembra che questi vent'anni di analisi non siano serviti". 
Tra i momenti più crudi del libro ci sono dei brevi intermezzi tratti dalla cronaca nera, violenze abominevoli su ragazzine, atroci giochi sessuali finiti in tragedia. È la realtà brutta del mondo che precipita nella sfera intima del diario, sono immagini di male che entrano in risonanza con il lutto personale. Un procedimento che la Dolci a volte usa è quello di trascrivere i sogni o le fantasie a occhi aperti senza dire che sono tali. Così incontriamo delle chicche di straniante poesia macabra: "Stanotte sono morta, dando alla luce un'altra figlia. Una figlia ombra, fantasma nero e ragnatela: l'incubo di Füssli"; oppure: "Il cadavere di papà che esplode nella bara". E si resta sospesi fra raccapriccio e umorismo dell’eccesso.
 
Gianni Iotti, Te-fa-min (Giovane Holden 2022). Romanzo di (non) formazione di un giovane di provincia, Nino, con ambizioni intellettuali. Il clima è plumbeo, la storia è costellata di lutti, la narrazione, vivida e impietosa, procede per blocchi, per episodi salienti più che per successione cronologica unita e continua. Molte sarebbero le immagini emblematiche da ricordare, a cui Nino assiste o che gli arrivano alle orecchie: un padre di famiglia che si impicca in soffitta, con il figlio che, invece di provare a salvarlo, gli si appende alle gambe; il leggendario e orrifico racconto di un braccio mozzato eppur vivente; la pazza Gisella che vola giù dal terrazzo; la gita estiva nei campi, turpe e violenta, cui Nino prende parte, sfiorando lo stupro e uccidendo senza motivo un cane…
L’animo di Nino è scandagliato con fine e dolorosa esattezza, così da rivelare un inestricabile groviglio di "pietà e disgusto" verso la sua gente e il suo ambiente, e la sua difficoltà a lasciarsi andare al qui e ora degli affetti e dell'esperienza vissuta, sempre con lo sguardo di chi si vede agire come in un film. La voce narrante, sulla scorta di una tradizione consolidata, si fa carico di mostrare al lettore il continuo sovrapporsi in Nino di vita reale e proiezioni mentali, il suo assimilare quello che gli accade a esperienze passate, come pure il suo pregiudicare “quelle  a venire con il marchio del già stato". Ma forse il narratore abusa un poco della sua onniscienza. Si avverte a tratti come una preponderanza dell'interpretazione sulla narrazione, sottolineata anche dalle frequenti citazioni letterarie, cinematografiche e musicali.
Nella vicenda di Nino lo spartiacque è costituito dall'arrivo a Venezia, città universitaria, teatro di un incerto impegno politico nel movimento studentesco, cui segue il ritorno sconfitto a casa e la sua strana morte. Strana perché accidentale, quando la parabola amara e disincantata di Nino lasciava presagire il suicidio. Ma sarebbe stato un gesto troppo perentorio. Al personaggio non viene concessa nemmeno questa paradossale forma di riscatto.
 
Margherita Loy ha pubblicato, a poca distanza l'uno dall'altro, due libri: il romanzo breve Delia o un mattino d'autunno (Barta 2023) e la raccoltina di racconti Tutto ciò che resta (Hopeful monster 2024). Il primo è la storia di una donna di mezza età, divenuta ansiosa e bulimica dopo il naufragio del suo matrimonio, che incontra ogni mattina uno strano personaggio fermo a un incrocio. Corpulento e distinto come un pinguino, di quel volatile antartico sembra avere la notoria pazienza (il maschio del pinguino cova lungamente l'unico uovo deposto dalla femmina). Agli occhi di Delia (e del lettore) personifica l'attesa, la calma, l'equilibrio. È una attrazione irresistibile per una donna che ha scelto la frenesia del quotidiano come antidoto al dolore, il piacere convulso del cibo alla gratificazione sentimentale. Ma cosa aspetta all'incrocio l'uomo-pinguino? Si scoprirà verso la fine, dopo che Delia sarà riuscita ad avvicinarlo vincendo la propria timidezza. Ma la strana complicità che nasce tra i due non è indolore. L'uomo-pinguino si rivela un grande affabulatore, racconta a Delia pezzi del suo passato il cui carico di sofferenza non è semplice da ricevere per l'ascoltatrice. Delia va in crisi, sprofonda nella depressione. Ma è una discesa agli inferi salutare. Costretta a guardarsi dentro e rischiando per questo di andare in frantumi, Delia saprà rinascere.
Con Tutto ciò che resta Margherita Loy torna alle origini del suo scrivere, cioè alla forma racconto, con cui aveva esordito su "Paragone" ai tempi di Garboli. I titoli dei tre impeccabili racconti che compongono la raccolta sono emblematici: Perle, Collana, Anello. Tre oggetti talismano che diventano motori narrativi. La prima storia, Perle, è quella di un amore incompiuto che diventa qualcosa da venerare nel ricordo, un amore al quale la protagonista resterà fedele per sempre. Ambientata durante il terribile assedio russo di Budapest del 1944, rimanda direttamente al primo romanzo di Margherita, Una storia ungherese (Atlantide 2018), che racconta quei giorni drammatici attraverso il diario di una ragazza. (Nel buio di uno scantinato Kinga fugge dall'orrore presente rifugiandosi nel luminoso ricordo del suo primo amore). Nella seconda storia, la collana del titolo diventa l'amaro simbolo di un'amicizia femminile inspiegabilmente finita. Nella terza, l'anello con un motto nazista che un padre morente regala al figlio, si rivela un pegno inacettabile di cui liberarsi ad ogni costo. Tre racconti, tre oggetti memoriali che parlano nel presente con la loro, apparentemente muta, materialità.
 
Gianfranco Mammi, Nostra Signora dei Sullivan (Nutrimenti 2021). Scrive Raoul Schenardi che questo libro appartiene alla «sempreverde letteratura d’impronta surrealista». Infatti, se il surreale è quella sorta di "soprannaturale normalizzato" che troviamo già ne Il naso di Gogol e ancora più eclatante ne La metamorfosi di Kafka, e che verrà eletto a sistema da Breton e compagni allungandosi per tutto il novecento, anche Mammi, in un suo modo comico, abita da quelle parti. Già, perché siamo (noi lettori, così come i personaggi) messi davanti a un evento talmente abnorme da non poter essere altro che soprannaturale, una sorta di miracolo, ma le reazioni che scatena sono tutte nell’ordine della realtà spicciola, chi assiste non viene sconvolto ma solo disturbato, infastidito e noi ne siamo divertiti, mai messi davvero in crisi. Come avviene nei sogni, dove viviamo le più incongrue esperienze, le più folli avventure come se fossero ovvie, normali, quotidiane. Per l’Italia, si è soliti far partire l’elenco degli scrittori surrealisti, o imparentati più o meno alla lontana con il surrealismo, dai vari Bontempelli, Savinio, Landolfi, su su, fino a Malerba, Celati, Cavazzoni, tanto per fare qualche nome. E nel libro di Mammi il miracolo normalizzato è questo: l'oscuro Sullivan, abitante di una piatta cittadina del sud degli Stati Uniti, inizia a morire e non smette più. Una morte ripetuta e inspiegabile, scandita dall’arrivo delle sue salme sempre uguali all’obitorio. Ma questo non genera terrore negli abitanti, che restano stupiti, certo, ma si adattano presto alla nuova realtà, naturalmente con una gamma di reazioni diverse. Il pigro sceriffo è scocciato di doversi occupare del caso, che viene a disturbare la sua nullafacenza condita di birre; due necrofori affascinati dall’evento fondano la setta religiosa del Sullivanesimo; il prete cattolico della città, che non condanna il nuovo culto con la dovuta fermezza (e anzi finirà per aderirvi), si trova a dover contrastare le ire dei suoi superiori; il sindaco e molti altri vedono negli eventi un’occasione per attirare curiosi in città e fare affari con ogni sorta di traffico e di merchandising. Ma la trama è ricca di molti altri personaggi buffi, grotteschi, simpatici anche se canaglieschi, come i due vice sceriffi, marito e moglie, che tentano invano di fare fuori l'agente federale Timpanaro per sottrargli dei lingottini d’oro: sembra di vedere un pochino, in trasparenza, i maldestri idioti di Fargo dei fratelli Cohen, così imbranati da suscitare il riso anche nel mezzo delle peggiori efferatezze. E tutto questo avviene in un’America di cartapesta, anzi di celluloide, una felice parodia non di un’opera in particolare, ma di tutto un immaginario letterario, e ancor più cinematografico e televisivo in cui, volenti o nolenti, siamo cresciuti: ne conosciamo luoghi, tempi, figure, voci, gesti, atmosfere e, naturalmente, se ne può ridere di gusto. Un surreale - nota sempre Schenardi - comico fin dai nomi dei personaggi, in genere di una sola sillaba (Stol, Smid, Peil, Brul, Pik…)  o - aggiungo - frutto di un’estrosa pratica del nomignolo composto: Quattro Peli, Cappello Floscio, Vitello Quadrato… Ma chi è racconta la storia? Di chi è questa voce narrante che parla a nome di tutti dicendo “la nostra spaventosa città”, “la nostra accaldata città”, “questo stato desertico e selvaggio”? Non appartiene a nessuno dei personaggi - e forse un poco a tutti - è come la voce di un fantasma, parodia di tutte le voci fuori campo. 
 
Carlo Sperduti, Spostamenti (Tìc 2024). In prima approssimazione, anche i testi che compongono questa raccolta, verrebbe da chiamarli surreali, onirici, mossi come sono dalla logica stringente e incongrua dei sogni. Ma questo è un dato quasi ovvio. Sono prose brevissime (poche righe, una pagina, due al massimo), narrazioni a volte tronche o a sorpresa, enigmatiche, oppure teatrini dell’assurdo quotidiano con venature horror. Divisi per gruppi, i testi sono intervallati da corsivi sconnessi, costruiti con linguaggi perlopiù extraletterari, si direbbe attingendo a volantini pubblicitari, foglietti di istruzioni, comunicazioni aziendali. Sperduti prende dichiaratamente di mira il letterario e il romanzesco, i suoi personaggi non hanno mai nomi e spesso nemmeno pronomi, tendono a una ironica spersonalizzazione. Presi nell’insieme, questi brani sembrano voler dire che il linguaggio non basta a raccontare il mondo, che il tentativo è inutile e falso. Da qui il rifiuto di ogni lirismo, il ricorso alla frantumazione, alla sospensione del senso.  Sperduti è anche editore e continua questo suo discorso antiletterario nei libri di “déclic”, che si fanno notare per il bel grafismo colorato delle copertine che non spiegano, ma attraggono, costringono a prendere in mano i volumetti e a sfogliarli. Sono infidi trabocchetti però. Gli autori di questa collana, nata per ospitare “opere ibride, sperimentali, devianti, inclassificabili”, spingono sul pedale della comunicazione interrotta e dell’asintattismo, sviano, imbrogliano le carte. Cose che rimandano direttamente, ancora più che alle avanguardie storiche, alla neoavanguardia, ormai storica anche quella. Semmai il dubbio è proprio questo: siamo di fronte a qualcosa di veramente nuovo o si tratta di una riproposta consapevolmente retrò? Restano comunque godibili, e raccomandabili, certi cortocircuiti logici che fanno sorridere, le zampate di umorismo nero, i paradossali rovesciamenti del senso comune. Sperduti cura anche la collana “glossa” di pièdimosca edizioni, della quale si dichiara “dirottatore” anziché direttore, ma che ci pare meno intransigente, più disponibile a venire incontro al povero lettore e ospita alcuni piccoli gioielli di scrittura breve, come 83 romanzi di Alberto Chimal o A caccia di conigli di Mario Levrero.