Due poeti: Mazin e Amato

28.01.2017 23:36

 

IL POETA MAZIN

 

Del poeta Mazin - lo confesso - non so niente, né della vita, né delle opere. Conosco solo, per averlo visto in fotografia, il quadro che lo ritrae mentre sorseggia una tazza di bevanda fumante, probabilmente caffé. Tiene un libro aperto sulle ginocchia e sul tavolo alla sua sinistra c'è una bottiglia. Non me ne vogliano i suoi estimatori, ma per me Mazin è solo una figura colorata, anzi: una foto di una figura colorata. Esiste solo sulla carta, senza alcun rapporto con la realtà. Questo stato di cose durerà fintanto che qualcuno non mi darà notizie documentarie di lui, così da impedirmi il totale arbitrio creato dalla mia ignoranza. Ma voglio godermi questa parvenza d'onnipotenza che per il momento mi è concessa. Così parlerò di Mazin a modo mio, in tutta libertà, con spudorato candore. 

Ebbene, dovete sapere che egli nacque sulle rive del Volga, in un villaggio chiamato Puskin, da padre ebreo e madre tartara. In quello stesso villaggio visse lungamente, e lungamente morì: la sua è l'agonia più ostinata della storia, essendosi prolungata per ventidue anni. In questo periodo Mazin alternò momenti di dolori lancinanti e di voluttà senza pari, ma sempre conservò il suo cipiglio e, sopratutto, non si tolse mai il cappello. E' un mistero, questo del cappello, che nessuno è riuscito a svelare. Perché tenere la testa coperta quando le fitte erano così acute da dargli la febbre a quaranta e farlo grondare di sudore? E perché tenerlo nella foga di amplessi tumultuosi che lo facevano sudare al pari degli accessi della malattia?

Mazin non coltivava la sua arte con perizia e disciplina. Ha lasciato centinaia di componimenti incompiuti, smozzicati, buttati giù in tutta fretta e rimasti ad arrugginire nel cassetto. Se è divenuto celebre è per merito di suo nipote che, pazientemente, ha enucleato da quell'informe conglomerato di versi alcuni endecasillabi d'impareggiabile brillantezza, sgrossandoli dalle brutture retoriche e dalle zoppicanti ingenuità che li circondavano. Forse Mazin inseguiva una perfezione istantanea, voleva una scrittura geniale al primo colpo, che non avesse bisogno di maturare nel tempo e nella pazienza. O forse non si poneva nemmeno il problema di scrivere qualcosa che restasse, preoccupato solo di dar corpo alle sue voci interiori, imbrattando le pagine di automatismi verbali. Comunque, suo nipote lo ha reso leggibile, apprezzabile, degno di essere ricordato.

In tutta franchezza io odio il poeta Mazin, con la sua tazza fumante, il suo sguardo sbilenco, il suo quaderno, la sua sconcia bottiglia di ubriacone. Non so perché sia stato stimato degno di essere ritratto. Cosa vuole il poeta Mazin, questa figura di nulla, questo quadro sfacciatamente bello, questa pura congettura d'uomo? Il poeta Mazin, io lo avrei ucciso.

 

(da: Alessandro Trasciatti, L'asino blu, Flussi edizioni, 1997)

(testo ripubblicato in Nuova Tèchne, n. 25, Quodlibet, 2016)

 

Marc Chagall, Il poeta Mazin, 1911

 

 

IL POETA AMATO

 

Il poeta Amato vive sepolto in una casa viareggina, alla mercé dei figli e delle mogli che lo sovrastano e che, d'altra parte, lui tormenta quotidianamente con spilloni e pentole d'acqua bollente. Una sera sono andato a cena da Amato e ho trovato un'ambulanza, i pompieri e i carabinieri. Aveva cercato di sterminare la famiglia con dei getti potentissimi di acqua bollente. In pratica usava il ferro da stiro a vapore di sua moglie come un lanciafiamme. Il risultato qual'è stato? Nulla. Si è ustionato da solo, da capo a piedi. Lo hanno ricoverato più morto che vivo. Ma poi, purtroppo, si è ripreso e allora lo hanno chiuso in soffitta dove vive tuttora in compagnia dei piccioni e dei gabbiani. Nella sua casa sul mare, di gabbiani ce ne sono tantissimi e gli scacazzano anche in testa. Si fa vedere di rado, non accetta visite, vive nel guano. E' un uomo ridotto a uno stato guanale, scrive al computer di continuo, ma sono cose incomprensibili perché con le sue zampe palmate è difficile che schiacci un tasto alla volta. Un tempo era un grande poeta, ora scrive nefandezze palmari che non capisce più neanche lui. Forse non scrive nemmeno più. Dicono i familiari - ogni tanto rilasciano interviste - che l'antico poeta non faccia altro che raspare da mattina a sera. Quello si sente bene, tutto un raspio, un diguazzio vischioso che scende giù dalle canale, un frugagliare che attraversa l'impiantito e non lascia riposare nemmeno di notte.

 

(tratto da Nuova Tèchne, n. 25, Quodlibet, 2016)

 

Roberto Amato (particolare de L'ultima cena, di E. Codalli e A. Locatelli)