I lupopesci di Lentini

20.09.2023 21:59
Una logica a rovescio. Un libro a rovescio. Ma perfettamente equilibrato. Non so dire quanto l’operazione sia nuova, più di cent’anni di avanguardie ci hanno abituato un po’ a tutte le provocazioni. Eppure qui, in questo libro di Alfonso Lentini (Noi siamo i lupopesci, pièdimosca edizioni, 2023, collana "glossa" a cura di Carlo Sperduti) c’è una freschezza genuina, anche per merito dell’estrema brevità dei testi e di una lingua che non è quella della prosa d’arte, ma spesso ha l'incedere delle storie orali. Storie che poi scoppiano da tutte le parti, si ribaltano, perdono pezzi con una grazia giocosa e infantile. C’è un po’ di Rodari nei minuscoli ritratti di una famiglia i cui membri, nessuno escluso, sono ossessionati dalle scale, dall’idea di salire e scendere: il figlio che “abita nei pianerottoli fra una scala e l’altra”, il nonno che “se la sentiva nel sangue, quella cosa lì: la febbre, la smania dello scalatore”, la sorella che sale le scale all’incontrario “in quanto scalista specializzata”, e così via, fino allo zio scaleno, sproporzionato e sconnesso, ma “in famiglia lo accettiamo senza far troppe storie, scaleno com’è, anche quando tenta di salire su se stesso e, non riuscendoci, piange e strepita alla disperata”. La madre poi, da una dimensione arcana, “Partorisce scale. Lei partorisce e ride…sono scale scalanti. Scalano i cieli e tendono verso qualche altissima sembianza di divino”. E qui finisce la prima parte del libro, “Scale” appunto.
La seconda parte, “Del dormire”, è un elogio del sonno e della fantasia onirica: “Chi dorme certamente non piglia pesci, ma piglia basilischi, uccelli del paradiso, daini albini, topi giganti, pantere profumate, unicorni, leviatani, centauri, lupopesci. Godere a sbafo di tutto questo, che privilegio oltreumano!” In questo pullulare di esseri immaginari, chiamati all’esistenza solo dalla parola, affiorano anche oggetti inanimati che, nella distanza della memoria, diventano blandamente senzienti: la vecchia Skoda 1000 addormentata nella baracca ai margini del bosco e popolata da ragni e altre microbelve; la Ford Focus Station Wagon “che per vent’anni ha trasportato nel suo ventre la testa intermittente di tuo zio” e ora viene a cercarti “spingendo il cuscino con il suo muso. Con quel suo muso di animale metallico, ora così triste, molliccio, carico di stizza sonnolenta”.
Chi sono poi i “Nani di mente” che danno il titolo alla terza sezione del libro? A prima vista sembrerebbe trattarsi di una satira un po’ didascalica dell’uomo contemporaneo, superficiale e disposto a bersi tutte le balle raccontate dai media. Ma ci viene il dubbio che non sia così e che la metafora sia tutt’altro che scoperta, visto che il nano di mente non è solo uno che crede “nei calendari, nel tempo che passa” ma uno che crede anche “nei zirlacchi, nei pitànferi, nei lupopesci, nell’urlapicchio”, e allora non è certo qualcuno assoggettato ai luoghi comuni. Chi sono allora questi esseri che ci somigliano nella banalità e tuttavia si nutrono di carne di imenottero e latte di pavone? La satira sembra rovesciarsi contro se stessa, il senso vacilla, vale tutto e il contrario di tutto. Allora viene in mente Jarry che in Ubu incatenato faceva dire a Pissedoux, di fronte a una folla di uomini liberi: “noi siamo liberi di fare quello che vogliamo, anche di ubbidire; di andare dove vogliamo, anche in prigione! La libertà è la schiavitù!”
L’ultima sezione del libro, “Il viaggio sulla Luna”, non pare avere un filo conduttore, somiglia piuttosto a un’antologia di assurdità, una miscellanea di ardite sconclusioni, dove le donne si chiamano Annavenanzia, Annaprocopia, Annapinella… e dove incontriamo un bambino di marzapane che si ciba di ginnastica ritmica e beve carta geografica, dove bambole d’ossigeno “in abbigliamento onomatopeico” passeggiano per i viali, dove “allegri e nudissimi” ci si alliscia dappertutto sotto lo sguardo complice di un gatto elettrico. La tenerezza dei ricordi si mescola all’insensatezza del vivere: “In questa casa d’intolleranza non ci è concesso di respirare se non a turno e a piccoli sorsi. Viviamo ammassati stretti stretti, uno accanto all’altro, uno sull’altro, uno dentro l’altro, occupando ogni anfratto possibile, nel fetore stagnante dei corpi”. Per chi scrive, è impossibile non riandare con la mente a un proprio volumetto del 2002, Prose per viaggiatori pendolari, dove una prosetta iniziava così: “Siamo troppi dentro questo cappotto, circa un centinaio. E voi capite che la nostra situazione non sia delle più felici…” Un libro che ci è amico, questo di Lentini, un libro che ci somiglia, anche se non è detto che gli amici sempre si somiglino.