La pioggia definitiva
I
I voli degli uccelli si incrociavano nel riquadro della finestra di cucina, un rettangolo di selezione visiva, un modo semplice per organizzare i fenomeni, per ricondurre la frastornante molteplicità del mondo ad un esiguo numero di elementi analizzabili. Da quello spicchio di realtà lui poteva formulare ipotesi più ampie, tentare ricostruzioni congetturali di vasto respiro, andare dalla parte al tutto e ritornare dal tutto alle sue parti, a quella parte ritagliata dalla finestra.
Stava per piovere. Per il momento si udivano dei brontolii piuttosto lontani, ma qualcuno da sotto aveva detto: "Sento qualche goccia". Una voce senza corpo né volto, un timbro femminile accompagnato da un rumore di passi sul ghiaino del piazzale. Bisognava crederle? Dalla finestra non s'intravedevano traiettorie di pioggia. Si trattava di una frase assertiva, ma che, nell'impossibilità di verifiche dirette, andava presa come una testimonianza tra le innumerevoli altre che avrebbero potuto essere ascoltate. Pertanto bisognava attenersi ai fatti e l'unica cosa certa erano i sordi borborigmi delle nubi che, adesso, erano più vicini.
"Mamma, tirami giù un cucchiaino! Capito? Tirami un cucchiaino così gli do da mangiare"...Un'altra voce dal basso, questa volta maschile, anch'essa non riconducibile a un volto, aveva attraversato lo spazio dell'attesa e si era persa in una nebulosa di sottintesi. Forse era in questione un gatto o un cane, ma più verosimilmente un gatto, quel gatto che si vedeva spesso aggirarsi intorno al condominio.
Ora erano veri e propri tuoni. Il pomeriggio però era ancora luminoso. La facciata di una delle villette di fronte risplendeva colpita dai raggi, ma già nell'angolo superiore destro della finestra si affacciavano propaggini scure.
Che senso aveva starsene seduto ad attendere la pioggia? Ben altre erano le urgenze, le piccole incombenze quotidiane da sbrigare: fare ordine sulla tavola e nella camera, lavare i piatti, ripulirsi - era appena rientrato dal lavoro e si sentivo sudaticcio, sporco e aveva bisogno, anzi, desiderio fisico di una doccia. Eppure stava lì, di fronte alla finestra, dove vedeva spezzoni di voli, frammenti di traiettorie d'auto, l'ondeggiare di alberi lontani fra case immobili che non entravano per intero nel campo visivo. Nemmeno si poteva dire che speculasse (come altre volte aveva fatto) dal poco che gli era dato di scorgere. Anzi, accettava quei brandelli di realtà con la passività di chi non vuole costruire, ma si lascia attraversare dalle percezioni come un vetro pulito, senza cercare di capire, arreso di fronte ad un'evidenza banale ed enigmatica.
Abbaiare di cani. Cinguettare di uccelli intorno a nidi nascosti tra i rami. Nubi sempre più scure e tuoni più forti.
Avrebbe dovuto interessarsi maggiormente di politica, pensò, andare oltre il rapido ventaglio di notizie offerto dai telegiornali o dai titoli delle prime pagine. E certo adesso seguiva più che in passato i dibattiti sul piccolo schermo, leggeva anche interviste ed analisi di osservatori sui settimanali. Ma era ancora poco per far fronte alla marea di luoghi comuni in cui si sentiva immerso. Decise di farsi la barba. No, prima doveva cadere la pioggia. Era una questione di minuti e non voleva perdersi la speciale fragranza di bagnato che la terra asciutta avrebbe esalato dopo gli scrosci iniziali e che si sarebbe ben presto persa in un diffuso e generico sentore d'umidità.
Improvvisamente il suo occhio, che vagava pigro da un angolo all'altro della finestra, si fermò su un altissimo abete che spuntava, a qualche centinaio di metri, dal boschetto di una villa. Fu una specie di rivelazione, una di quelle immotivate illuminazioni che ti fanno investire di significato un oggetto visto e rivisto ma rimasto sempre opaco, insulso. Immobile, spropositatamente lungo, l'abete s'impose alla sua attenzione. Irraggiungibile e muto si drizzava angoscioso verso le nubi che non si decidevano a sciogliersi in acqua. L'albero si avvicinò rapidamente. Con spaventosa tranquillità allungò i suoi rami sin dentro la cucina. Lui lo lasciò fare, non si oppose. Si sentì pungere dalle foglie aghiformi. Fu rovesciato dalla sedia, avvinto da quella verde invasione. E già l'abete aveva occupato anche la camera, premeva sulla porta del bagno, occupava fessure, interstizi, riempiva pertugi, colmava piccole crepe dell'intonaco e ne apriva altre espandendosi in ogni direzione. Lui non tentò la fuga e si lasciò soffocare con compiacimento.
II
Nuvole passano, altre stanno ferme. I monti sono una vaga sagoma dietro la foschia. A scandire lo spazio angusto del panorama visibile dalla finestra solo guizzi d'impercettibili volatili e contorte traiettorie d'insetti: girano su se stessi, tentano una direzione e imprevedibilmente si gettano in quella opposta, entrano in casa, riescono, frenetici e silenziosi, oppure ronzanti, comunque indifferenti, presi da una logica di movimenti incomprensibile.
La pioggia finalmente era arrivata. Un rovescio breve, giusto utile per inumidire il terreno e farne salire l'aroma. Lui l'avrebbe sicuramente gustato con voluttà se non fosse stato per l'incidente. Del resto lui stesso ne era stato in qualche modo responsabile con quel suo sguardo insistente che si era posato sull'abete, lo aveva sollecitato, ne aveva provocato l'immobilità, lo aveva tolto dalla sua apparente, solo apparente, imperturbabile presenza. La pioggia era caduta così inutilmente, inosservata, non goduta, pura manifestazione atmosferica senza movente e senza conseguenze. Ora splendeva di nuovo il sole.
(Tratto da: Alessandro Trasciatti, Scampoli, Oèdipus edizioni, di prossima pubblicazione)
Disegno di Timofey Kostin, esponente (forse) unico del Concettualismo Ridotto.