La primavera di Pea

02.04.2017 21:27

 Quanti si ricordano di Enrico Pea? Quanti hanno letto i suoi libri? Eppure è stato uno dei maggiori scrittori italiani del Novecento. A Lucca, nel quartiere di S. Anna, una traversa che unisce via Bigongiari a viale Puccini porta il suo nome. Forse non a caso, visto che fu proprio Giacomo Puccini a provocare la vera scoperta di Pea, raccomandandolo ai fratelli Treves, editori, affinché pubblicassero, nel 1922, Moscardino, la sua opera più famosa.

Pea nacque a Seravezza nel 1881. Cresciuto con un nonno saggio e crudele, generoso e al tempo stesso violento, Pea lasciò la sua casa a quindici anni per fare il guardiano di greggi, il mozzo e poi emigrare in Egitto. Ad Alessandria d’Egitto fece i mestieri più diversi, dal domestico al meccanico, dal ferroviere all’importatore di vini. La sua dimora, la Baracca rossa, divenne luogo d’incontro per anarchici, socialisti e transfughi di ogni nazionalità. Fu qui che conobbe Giuseppe Ungaretti che lo incitò alla scrittura e gli fece pubblicare il suo primo libro, Fole, del 1910. Con lo scoppio della guerra, nel 1914, Pea tornò in Italia e si stabilì a Viareggio dove divenne proprietario del Politeama e intraprese così una lunga carriera di impresario teatrale. Ebbe la stima di autori come Italo Svevo, Ezra Pound e James Joyce, che curò la traduzione in inglese di Moscardino. Scrisse anche molti altri libri, tra cui La figlioccia (1931) e Vita in Egitto (1949), e opere teatrali. Si spense nella sua casa di Forte dei Marmi nel 1958.

In Moscardino ci vengono narrate le vicissitudini del piccolo protagonista e alter ego dell’autore, soprannominato, appunto, Moscardino. All’inizio del libro, Pea racconta la storia del nonno e dei suoi fratelli. Quando questi rimangono orfani, è Don Pietro Galanti, sacerdote e tutore della famiglia, a prendere possesso dei beni. Pea, nella sua lingua toscana, bella e imprevedibile, ci descrive Don Pietro con parole colorite e precise, e al tempo stesso disegna l’ambiente in cui si muove: un aspro paesaggio invernale che si scioglie e si schiude all’arrivo della primavera.

 

 

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Don Pietro Galanti era sordo, ed aveva sessantun anno: pochi capelli grigi e lisci, quasi untuosi, sulle orecchie e a zazzera sulla fronte bassa, con tre rughe serpigne appena percettibili sulla magra pelle olivastra.

Prolisso per natura, si radeva ogni giorno quella faccetta asciutta col naso gobbo.

Il venerdì faceva l’elemosina ai poveri della sua parrocchia, divisi per sesso a destra e a sinistra, in fila davanti l’uscio di casa, dalla parte del monte ove non batte sole d’inverno.

Poco lungi dalla sua casa, il monte trasuda, sulle grotte lisce con le spaccature muschiose: il sudore si gela, e agli orli i formano delle cristallerie inverosimili, da quelle lacrime sguvite dal monte che subito righiacciano all’estremità delle candele fantastiche:

come l’altare maggiore capovolto per incanto, ove le candele senza lucignolo si siano pietrificate trasparendo in una luminosità prodigiosa.

Così, se a quelle grotte nericce vi fossero arrampicate delle caprette di legno, un pastorello con una mazza sulle spalle e un cappello da brigante, sembrerebbero le grotte dei presepii, messe in quelle scatole col vetro davanti.

Soltanto in aprile, quando la pioggia è tiepida e le grotte sono riscaldate dalla borraccina in germoglio e dalle altre gioie di Dio invisibili ai nostri occhi, soltanto in aprile, le candele fantastiche sguviscono del tutto, e le ombre non tremano più nelle luminerie prodigiose.

In aprile, dopo le brevi piogge, il cielo si rasserena, le cristallerie inverosimili si sciolgono sui poggi, portano seco le foglie marcite, lavano le grotte, e tutto si colorisce di nuovo colore: l’acciottolato delle viuzze si fa giallo di fanghiglia, e i piedi dei poveri s’inzaccherano, perché gli zoccoli hanno perduto il tacco, e la suola è diventata una lisca per l’uso di tutto l’inverno.

Don Pietro Galanti raffigurava i suoi poveri alle anime del purgatorio: esse vedono Iddio e restano in pena, in mezzo gaudio e in mezzo dolore.

I poveri di Don Pietro Galanti hanno i piedi nella fanghiglia e aspettano di essere sfamati dalla Provvidenza, mentre il cielo è sereno, gli usignoli rifanno il nido, i peschi rifioriscono, e negli orti dei ricchi gli aranci già sono imperlati di bianco.

 

Don Pietro Galanti apriva la porta di casa alle dieci di tutti i venerdì. Si tratteneva un attimo sulla soglia per accertarsi che tra quelle anime in pena non vi fossero poveri di altre parrocchie.

Poi passava con la sua borsetta di tela: contenente il denaro spicciolato:

gli uomini si scoprivano, le donne allungavano la mano: «Dio vel meriti in paradiso», era il motto di uso e di ringraziamento, salvo ad aggiungere altre spiegazioni di scusa e di schiarimento, dopo il sermone inevitabile ad ogni elemosina.

Specialmente le donne erano tormentate dalle cianciate di Don Pietro Galanti, prolisse fino allo stucchevole se si trattava di vedove.

Dalle povere vedove Don Pietro Galanti esigeva speciali pratiche religiose ed una condotta esemplare.

La domenica, Don Pietro Galanti diceva la messa delle dieci, e i suoi poveri li voleva in fila dietro la balaustrata, pena la soppressione dell’elemosina.

Usciva dalla sagrestia, camminando piano per aver tempo di contare i suoi poveri. Intanto il ragazzo disponeva il messale sopra il leggìo e metteva in ordine le ampollette dell’acqua e del vino: e pazientava in piedi in fondo alla gradinata, masticando con gioia la libertà della settimana a venire, consolandosi che quella prolissità sarebbe stata riserbata per turno al chierichetto suo compagno.

 

(Enrico Pea, Il Romanzo di Moscardino, Elliot Edizioni, Roma, 2008, pp. 36-37)

 

 

 

 

 

Una curiosità: Enrico Pea attore, nel 1954. Guarda il video.