Ritrovamenti domestici: Una storia ungherese di Margherita Loy
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Ritrovo questo libro in fondo a una borsa, chiusa in un armadio. Lo avevo cercato a lungo. Avevo iniziato a leggerlo appena uscì e poi ne avevo perso le tracce. A volte i mini appartamenti, con le loro inevitabili stratificazioni di oggetti, diventano insondabili. Da buon lucchese non mi decidevo a ricomprarlo, anche perché non mi rassegnavo ad averlo perso, visto che aveva la firma e la dedica dell’autrice.
Una storia ungherese (Atlantide 2018) è una storia di guerra, il diario di una ragazza chiusa, assieme alla famiglia e altri sfollati, per due mesi in un rifugio durante il terribile assedio russo di Budapest nel 1945. Un diario d’invenzione naturalmente, ma basato su un breve dattiloscritto reale, una testimonianza pervenuta da quegli anni nelle mani della Loy.
C’è tutto quello che si può immaginare di una città in guerra e che magari ci piace dimenticare: il senso di una precarietà estrema, le bombe, la paura, la fame, la promiscuità, il puzzo dei corpi ammassati nel buio, il ribrezzo delle carcasse dei cavalli, tristissima riserva di cibo. E più ancora di questo, l’amaro stupore di fronte all’odio razziale che si è fatto largo all’interno di una stessa comunità e ha portato alle delazioni, ai saccheggi, alle esecuzioni sommarie di ebrei. Kinga, la protagonista, non è ebrea ma lo è il suo primo e unico amore, Gylma. Dopo anni si ritroveranno, ma non ci sarà un lieto fine. Ognuno si salverà seguendo la propria strada.
Tutto il diario (e quindi tutto il romanzo) è giocato sull’alternanza di cronaca e ricordo. Alle vicende della miserabile vita sotterranea fa da contrappunto l’evocazione luminosa del passato (che è proprio un rivivere) nella grande dimora di campagna (“il castello”) di Oma, la nonna materna. Ad un presente di mera sopravvivenza e a un futuro che non riesce nemmeno a immaginare, Kinga oppone la forza del ricordo, che è soprattutto un ricordo d’amore, fino alla presa di coscienza di essersi illusa e di avere aspettato invano.
Quella di Kinga è una storia che procede per lacerazioni, una storia di perdite: prima il padre che abbandona la famiglia, poi la separazione da Gylma, poi dalla nonna Oma, poi ancora quella dal cagnolino Maxi, dal valore affettivo e simbolico, la partenza da Budapest e infine la morte della madre. La scoperta fortuita di alcune lettere di Gylma, mai ricevute, rischiara la vita di Kinga con la certezza di essere stata amata.
Si legge con emozione e a, libro chiuso, resta un senso straziante di compassione per questa giovane donna che non è riuscita a sbocciare, o che – se si vuole – è sbocciata troppo presto ed è stata avvizzita da una stagione feroce. Viene da pensare ovviamente ad Anna Frank e ai suoi Diari.
Ci si può chiedere, forse, se la finzione narrativa del diario di Kinga regga perfettamente, cioè se sia sempre plausibile una scrittura diaristica così fluente, così attenta agli effetti retorici e che però, a volte, si fa racconto al presente, in “presa diretta” pur raccontando del passato e ci si dimentica un po’ che sia una pagina di diario. Ma ci si pensa solo un attimo e si continua veloci a sfogliare le pagine di questo libro che narra vicende troppo poco lontane nel tempo per essere archiviate come mero oggetto di studio, vicende tragiche di cui non si può dire con certezza che non si ripeteranno più.
A. T.
(L'indice è del recensore)