Spaghetti a mezzanotte

21.02.2017 00:02

 

        Mezzanotte è passata da un pezzo, e più mi inoltro nelle ore più lo stomaco mi ricorda che ho cenato leggero e molto presto. Mi si affacciano alla mente padellate di pastasciutta, ho miraggi di spaghetti, ma non avrò mai la forza d’animo di alzarmi e andare di là in cucina a sfornellare. O forse è vero il contrario. Bisogna che mi addormenti subito, che ripieghi il gorgoglio incipiente in un angolino ben protetto del cervello, dove non ci sia eco né rimbombo.

È importante farlo in fretta, altrimenti so già che non resisterò alla tentazione di alzarmi, di convogliare nello stomaco qualcosa di buono, di saporito, un vagoncino di carboidrati con aglio, olio e peperoncino. E una birra fresca che faccia finta di dissetarmi e mi stordisca un po’ prima di coricarmi di nuovo. Le notti che si protraggono oltre mezzanotte sono per me a rischio. Vado soggetto al richiamo selvatico dello spaghetto in padella.

C’è stato un tempo in cui facevo i turni di notte nel centro di smistamento postale. Montavo a mezzanotte e tornavo a casa alle sette di mattina. I miei colleghi erano attrezzati bene: un fornello da campo, un pentolone pieno d’acqua, una quantità spaventosa di spaghetti, un tegame di ragù, fiaschi di vino.

Eugenio, il più chiacchierone di loro, ripeteva sbraitando: “È la ciccia che mi piace, mi fa perdere la pace!” Ma non si riferiva alla carne del ragù. Erano le colleghe più giovani che lo facevano uscire di senno. Ci scodellavamo gli spaghetti nei piatti di plastica, tanto c’era tempo prima che arrivassero i furgoni notturni da scaricare. Le prime volte ero un po’ imbarazzato, mi schermivo, dicevo che non avevo fame. Mi smentiva l’aspetto florido di chi mangia sempre, il buzzo prominente da bevitore di birra. Rifiutare un bicchiere sarebbe stato un gesto incomprensibile, offensivo. Avrei dovuto fare tutto un discorso giustificativo di transaminasi, steatosi epatica, grasso viscerale. Avrei dovuto accettare un inevitabile vaffanculo. Così mi adeguai e non fu un dispiacere.

I dolori venivano dopo, quando iniziava la lotta per tenere gli occhi aperti e finivo per lavorare come uno zombie con la testa penzoloni in avanti. Mi ero trovato una stanza recondita con un tavolo da riunione dove mi sdraiavo. Al posto del cuscino mettevo uno zainetto o una giacca ripiegata. Un’ora abbondante riuscivo anche a dormirla, poi tornavo con le ossa rotte alle operazioni di smistamento. Allora mi confortavo al pensiero che i grandi scrittori americani, la maggior parte mi dicevo anche se non era vero, hanno fatto lavori umili per sbarcare il lunario: Bukowsky il postino, Carver l’operaio in segheria, Stephen King il benzinaio e lo spazzino. Mica tutti sono degli Hemingway o dei Fitzgerald o dei Nabokov. Che poi i loro guai con la fortuna li hanno avuti anche loro. Però insomma, stavo lì e incasellavo le lettere nelle buchette delle destinazioni e rimuginavo sui grandi scrittori americani e mi immedesimavo, con la differenza che io non avevo pubblicato quasi niente e quindi chi lo sapeva che ero uno scrittore? Sì, ero uno scrittore, ma segreto come gli agenti segreti, uno scrittore in incognito, un minatore della letteratura, chiuso di notte in un ufficio postale pensando agli scrittori americani.

Era sempre così, tutte le notti del turno di notte. Gli spaghetti, il vino e gli scrittori americani. A volte mi addormentavo sul seggiolone e rischiavo di cadere. Smistavo le lettere nelle buchette e piano piano, una lettera dopo l’altra, il ritmo ipnotico del lavoro mi entrava nel cervello col movimento delle mani, le palpebre cominciavano a fare pause sempre più lunghe, fino a chiudersi completamente. Allora non sapevo più dov’ero e mi ritrovavo tutto ciondolante dallo scranno, con la testa vagante, le mani che mollavano la presa, le lettere per terra. Mi scuotevo di scatto, davo uno scrollone, un colpo di reni, un mezzo urlo quasi di paura. “Trasciatti! Che fai?” mi gridava Eugenio. “Eh, che faccio?” Non ho mai capito perché gli altri non si addormentassero, ero l’unico a crollare sistematicamente. Era una conferma, mi dicevo, della mia inadeguatezza a quel lavoro notturno, o forse al lavoro in genere. Io non volevo fare lo scrittore americano, io volevo fare lo scrittore nobile italiano che non ha bisogno di lavorare per vivere e scrive quelle opere massime tipiche degli scrittori nobili come l’Alfieri. Ecco, io mi sentivo un Alfieri sotterrato nelle poste notturne italiane. Come facevo a scrivere delle grandi tragedie contro i tiranni, in quelle condizioni? Avrei dovuto scriverle quando tornavo a casa la mattina, dopo una bella dormita ristoratrice. Ma quando mi svegliavo a mezzo pomeriggio, ero talmente stralunato e depresso e convinto che non ce l’avrei mai fatta a liberarmi di quel lavoro, che restavo come imbalsamato a guardare il soffitto, le pareti, la libreria che crollava di volumi. E non scrivevo niente. Rimuginavo soltanto. Pensavo, per esempio, che avrei potuto scrivere il Saul o l’Alceste, oppure anche l’Adelchi o Le mie prigioni. Ma allora mi veniva in mente Cagliostro rinchiuso dal papa nella rocca di San Leo, a marcire in una cella con l’ingresso solo dall’alto, così che ce lo dovettero calare dentro, quel disgraziato, e lo ripescarono quando fu bello morto dopo essere ammattito e aver scritto come un forsennato su tutte le pareti. E mi veniva in mente anche Maupassant, che lo trovavano nella cella del manicomio a leccare i muri bianchi con scrupolo, minuziosamente. Lui però non ce l’aveva chiuso il papa, era ammattito per via della sifilide, lui che lo chiamavano il torello di Normandia per la sua propensione stalloniera che lo faceva apprezzare molto dalle dame parigine. Ci aveva una testa di capelli ritti e dei baffoni che gli davano un’aria proprio da montatore, un tantino repellente, devo dire, uno che guarda una donna e gli viene la voglia istantanea di montarla. Però piaceva, così si dice. Secondo me sudava anche molto.

Questa era allora la mia vita nelle poste notturne italiane. Poi mi sono ammalato di nervi. Mi sono fatto cambiare di mansione, non lavoro più la notte. Anzi, non lavoro quasi più, sto sempre a casa in malattia. La mia vita è un po’ migliorata, ma non così tanto, perlomeno non ancora. Gli spaghetti di mezzanotte mi tormentano, solo a pensarci mi viene l’acquolina in bocca. Bisogna che mi alzi e metta a bollire una pentola d’acqua. Metterò a cuocere degli spaghettini fini, negli ultimi tempi li preferisco, forse perché mi ricordano un qualche periodo di convalescenza infantile. E poi, quando saranno cotti per quattro quinti, li scolerò e li rovescerò nel padellone dove sfrigge l’aglio con il peperoncino, e lì finiranno di cuocere. Sarà un bel piatto confortante. Con una bella birra fresca. Ma poi domattina chi ci va al lavoro? Ma tanto, ormai, non mi aspettano più. Si è sparsa la voce che mi abbia dato di volta il cervello e che stia davvero riscrivendo l’Adelchi o l’Alfredi, come dice qualcuno. Non sanno assolutamente di che cosa stanno parlando. Dicono anche l’Alcester, come fosse un fucile. Quando viene il medico della mutua per fare il controllo, mi guarda con circospezione, entra malvolentieri in casa, anzi, l’ultima volta non è neanche entrato, è rimasto sul pianerottolo e si è limitato a chiedermi: “Come va? Dorme la notte?”. Io gli ho risposto che sì, ogni tanto la notte dormo, ma più che altro mangio. Lui mi ha detto che andava bene così. Ora sono tre settimane che non vedo nessuno, forse si sono arresi. In quel posto non ci torno. Non ci torno più. Poi verrà il giorno in cui sarò guarito e uscirò di casa con un bell’Alcester caricato a pallettoni e allora si vedrà chi ha il coraggio di dirmi che sono matto.

 

(da AA. VV., Parole apparecchiate, con sei disegni di Simonetta Melani, Lucca, Trasciatti Editore, collana I Libratti, 2010) 

 

Disegno di Simonetta Melani. Guarda gli altri disegni del libro, clicca qui